Da gran tempo ormai, a gran voce e da più parti, era richiesto un intervento del Legislatore volto a disciplinare i “nuovi” rapporti di coppia.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito alla proliferazione delle coppie di fatto, ovvero quelle coppie non unite in matrimonio: si stima che in Italia ve ne siano oltre un milione (dati Istat). Era quindi evidente che i reciproci diritti e doveri dovessero trovare una regolamentazione.
Vi era il rischio, in buona sostanza, che si creasse una zona d’ombra in cui alle coppie di fatto, sia eterosessuali che omosessuali, non fosse garantita adeguata tutela: ed il Legislatore – è noto – deve cogliere le esigenze socio-politiche della popolazione ed intervenire.
Con le note tempistiche italiane, nel 2016 convivenze ed unioni civili hanno avuto la propria disciplina, ad opera della L. n. 76/2016, cosiddetta “Legge Cirinnà”, dal nome della senatrice prima firmataria e relatrice.
In sintesi, la nuova legislazione in tema di rapporti di coppia porta come conseguenza uno scenario caratterizzato da quattro differenti situazioni soggettive:
- a) il matrimonio, che ha come presupposto fondamentale la diversità di sesso delle persone che compongono la coppia;
- b) l’unione civile tra persone di sesso identico (non è ammissibile ricorrere all’unione civile per le coppie eterosessuali, in quanto per le stesse l’unica scelta è e rimane il matrimonio);
- c) la convivenza di fatto registrata all’Anagrafe (tra persone di sesso identico o di sesso diverso);
- d) la convivenza di fatto non registrata.
Quanto al matrimonio, nulla è stato riformato rispetto alla disciplina previgente.
Al contrario, la nuova legge introduce nel nostro ordinamento l’inedita figura della coppia di omosessuali che si dichiarino allo Stato Civile come “unione civile”. Le differenze con il matrimonio permangono ma a conti fatti i punti di contatto risultano prevalere.
La norma, sul punto, è molto chiara: “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
In dettaglio – analogamente a quanto accade per il matrimonio – i componenti dell’unione civile “acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”; dall’unione civile inoltre deriva “l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni”. Ancora, i membri dell’unione civile “concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato”. Sono, a ben vedere, le stesse parole che il Codice civile utilizza per i componenti della coppia unita in matrimonio.
Tali le analogie, le differenze, evidentemente, si riducono a ben poco: le modalità con le quali il matrimonio si celebra e l’unione civile si costituisce, il regime del cognome degli appartenenti all’unione civile (uno dei componenti può adottare il cognome dell’altro e anteporlo o posporlo al proprio) e l’obbligo di fedeltà, presente solo all’interno del matrimonio.
Tuttavia, la più rilevante novità apportata dalle Legge Cirinnà riguarda gli aspetti economici e patrimoniali dell’unione civile: in mancanza di una convenzione matrimoniale di adozione del regime di separazione dei beni (che, anche nel caso di unione civile, deve essere stipulata nella forma dell’atto pubblico) sia nel matrimonio che nell’unione civile si instaura il regime di comunione dei beni, nel senso che diventano di titolarità comune i beni e i diritti acquistati nel periodo durante il quale si svolge il matrimonio o l’unione civile.
Venendo ora a trattare delle convivenze di fatto registrate, notiamo la prima grande differenza rispetto all’unione civile (ed al matrimonio): tra conviventi non s’instaura alcun regime di comunione dei beni e ciascun convivente resta titolare di tutto ciò che acquista, anche dopo la formalizzazione della convivenza.
Sul punto, però, occorre precisare che i conviventi potranno stipulare per atto pubblico o per scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato un “contratto di convivenza”, nel quale andranno a regolamentare i loro rapporti patrimoniali e, quindi, anche il regime degli acquisti, nonché le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione al patrimonio e al reddito di ciascuno di essi ed alla loro capacità di lavoro professionale e casalingo.
Come spesso accade, in conclusione, l’intervento legislativo vi è stato ed ora tutte le coppie, eterosessuali ed omosessuali, sono libere di accordarsi sulla base della normativa di cui si è cercato di dare un quadro sufficientemente esaustivo: rimangono, però, alcuni punti interrogativi o, per meglio dire, alcuni settori in cui la Legge non è intervenuta e che ancora animano il dibattito politico del nostro Paese: tra questi, le adozioni.
Non è da escludere un nuovo intervento del Parlamento, verosimilmente con la nuova Legislatura.
Alessandro Sampò