A chi discende il dolce declivio dalla sommità del colle dell’Eremo verso il sole che sorge, non possono sfuggire le pietre di antiche mura, strutture in abbandono e un campanile che svetta solitario, orfano della sua chiesa: incontrovertibili segni di un passato ormai lontano che l’uomo non ha voluto far sopravvivere all’incalzare del tempo.
Eppure ci fu un’epoca in cui la struttura era famosa, frequentata da sovrani, nobili cavalieri e laboriosi eremiti, pulsava di vita ed era permeata di pace e religiosità.
Le pietre che ancora resistono, non volendo ostinatamente cedere al loro triste destino, sono tutto quel che rimane di un imponente eremo costruito agli inizi del 1600 e utilizzato per duecento anni, fino a quando l’arrivo dei francesi di Napoleone ne comportò l’abbandono da parte dei religiosi che ci vivevano.
La costruzione dell’Eremo dei Camaldolesi, ordine fondato da San Romualdo verso l’anno Mille, deve la sua giustificazione ad un tragico evento, la peste del 1599 che causò un grande numero di vittime (nella sola Torino morirono in 8.000 su una popolazione di 20.000).
Fu il frate camaldolese Ascanio dei Marchesi di Ceva ad esortare il duca Carlo Emanuele I a fare il voto di erigere un eremo sulla collina per chiedere a Dio di porre fine alla pestilenza e, quando l’epidemia fortunatamente se ne andò, il Duca non venne meno alla sua promessa e pose la prima pietra nel 1602, dando così inizio ai lavori di quello che venne ufficialmente chiamato “Regio Sacro Eremo” di Torino, in realtà nel territorio di Pecetto.
La chiesa venne portata a termine, insieme ad alcune celle, nel 1606 e consacrata ad ottobre di quell’anno dall’Arcivescovo di Torino Carlo Broglia, intitolata, per volere del Duca, al S.S. Salvatore che aveva fatto la grazia di liberare la città dalla peste.
L’anno dopo, 1607, vi venne trasferito l’Ordine Supremo della S.S. Annunziata, l’antico ordine cavalleresco sabaudo, istituito nel 1347 da Amedeo VI, il Conte Verde, secondo solo all’Ordine della Giarrettiera della Corte d’Inghilterra.
Dalla coabitazione di eremiti e cavalieri, il complesso trasse grandi benefici, non soltanto per la munificenza dei Savoia – giustamente orgogliosi del proprio Supremo Ordine ed altrettanto fieri di quel prestigioso Eremo che avevano costruito – ma anche per le generose donazioni che i Cavalieri erano obbligati ad elargire.
Grazie ai contributi che piovevano da tutte le parti il cantiere dell’Eremo rimase sempre aperto, in continuo sviluppo: si aggiunsero nuovi edifici, altri furono ristrutturati e ampliati, si abbellirono gli ambienti con opere di assoluto valore, come l’Ultima Cena, una grande tela (m. 2, 63 x 4,75) dipinta da Baldassarre Mattheus d’Anversa (Matteo d’Anversa), allievo del Rubens. Ai lavori parteciparono gli stessi monaci camaldolesi, molti dei quali erano artisti provetti, come don Carlo Amedeo Botto che scolpì gli armadi della sacrestia.
Vi operarono tutti i migliori architetti dell’epoca come il Plantery (lo zio del Vittone che progettò la Parrocchiale di Pecetto), Benedetto Alfieri, Amedeo di Castellamonte.
L’ultimo intervento fu quello dell’architetto Francesco Valeriano Dellala di Beinasco che nel 1780 eresse il campanile che ancora oggi domina la piana, pur privo di campana ed orologio.
Solo vent’anni dopo, con la calata di Napoleone, molti istituti religiosi furono soppressi e i loro beni divennero proprietà dello stato. Così accadde anche per la congregazione eremitica che venne soppressa a gennaio del 1801.
Seguì un periodo di abbandono fino al 1809, quando l’Eremo fu venduto all’asta e ne divenne proprietario il banchiere Giuseppe Reyneri.
Molte opere, nel frattempo, erano state portate via dai francesi, altre erano state rubate. Fortunatamente alcune riuscirono a salvarsi perché spostate in altre sedi; nella parrocchiale di Pecetto, S. Maria ad Nives, furono trasferite opere importanti, come l’altare e relativa balaustra, due porte scolpite dal Botto, due grandi porta ceri lignei.
Il Reyneri operò tutta una serie di trasformazioni rivolte alla costruzione di una tipica vigna collinare con villa padronale, rustico e edifici complementari. Non riuscendo a risolvere il problema delle abbondanti infiltrazioni d’acqua, fu costretto, suo malgrado, ad abbattere la Chiesa Capitolare, trasferendo nella propria abitazione il prestigioso pavimento in marmo.
Forse proprio a causa degli oneri derivanti dai tanti cambiamenti il Reyneri fece fallimento, nel 1847, e la villa passò di mano in mano fin a quando, nel 1874 l’acquistò l’Arcivescovo Lorenzo Gastaldi che la trasformò in residenza estiva per i chierici del Seminario di Torino, costruendo un lungo edificio, unito ai precedenti, per la residenza dei seminaristi.
Durante la seconda guerra mondiale la Fiat Grandi Motori vi mise i suoi uffici di progettazione.
Finita la guerra ritornò all’Opera Diocesana di Torino.
In occasione delle celebrazioni per Italia ‘61 fu edificato un albergo. Successivamente divenne una succursale dell’Ospedale Molinette e quindi una residenza per anziani.
Dell’antico Eremo esistono ancora alcune strutture: l’ingresso monumentale, la cappella dei forestieri, una cella, il campanile, il lavatoio, la farmacia, la torre del mulino e la cascina detta “La Margaria”, oggi di proprietà dell’INPS, una delle strutture agricole che provvedevano al sostentamento dei frati.
Quelle pietre, che sanno di malinconico abbandono e di una triste sorte ormai segnata, non si sono del tutto lasciate sopraffare e restano lì, immobili, discrete, silenziose testimoni di un passato che certamente non tornerà più ma che resta comunque degno di essere ricordato e perpetuato nel tempo.
Forse un giorno la loro paziente attesa sarà ricompensata e troveranno qualcuno che si occuperà di recuperarne le forme eleganti e ricche di fascino. Allora, quelle rovine, che videro passare sovrani, frati, cavalieri, pellegrini, potranno vedere nuove persone aggirarsi fra loro a contemplarle e interrogarle. A loro potranno raccontare una lunga e per certi versi misteriosa storia.
Per approfondire la storia dell’Eremo si consigliano due letture:
“Principi, monaci e cavalieri” di Maurizio Aragno, Ananke, 2006.
“Gli Eremiti Camaldolesi di Piemonte”, a cura di Gianfranco Armando, Laura Facchin, Diego Lanzardo, Cherasco Cultura, 2017.
Sergio d’Ormea