a Chiesa di San Sebastiano è certamente pregevole per l’architettura, armoniosa ed elegante nella sua linearità, ma è un grande capolavoro per i suoi affreschi, dipinti fra la prima metà del ‘400 e l’inizio del secolo successivo, che in origine ricoprivano tutta la superficie interna della chiesa: le pareti, le volte, gli archi ed i pilastri. L’incuria del tempo e l’indifferenza, a volte l’ignoranza, dell’uomo, hanno provveduto a distruggerne una parte.
Quello che è rimasto, fortunatamente, rifulge ancora in tutta la sua bellezza e può raccontare tante storie curiose ed affascinanti, ricche di patos, talvolta anche di mistero.
Molti furono gli artisti che si avvicendarono a profondere il loro talento e la loro fatica a partire dal 1440 fino al 1530: molti sono da tempo conosciuti ed apprezzati, alcuni sono stati solo da poco individuati ed altri invece sono ancora anonimi e vengono chiamati con nomi convenzionali.
Con i loro tratti precisi, le loro pennellate di colore hanno impresso sulle pareti della chiesa immagini dolcissime della Madonna e scene ricche di spiritualità sulla nascita e passione di Gesù; ad esse fanno quasi da corona le storie che la tradizione religiosa ha attribuito alla vita dei santi.
Degli affreschi così scrive Barbara Allason: “Li conosco bene quegli affreschi, li ho studiati a uno a uno, e mi stan nell’anima certi visi puri di madonne, di santi, certi quadri episodici di miracoli, di risurrezioni, di antiche leggende”.
Il primo a lavorare sulle pareti della chiesa, fra il 1440 e il 1450 fu il pittore che venne genericamente chiamato “il maestro di S. Sebastiano a Pecetto” fino a quando, recentemente, è stato identificato in Guglielmetto Fantini, pittore chierese, su cui ebbe notevole influenza Giacomo Jaquerio, maggiore rappresentante della pittura tardo gotica in Piemonte. Del Fantini così ha scritto Claudio Bertolotto: “Le opere del nostro pittore presentano sempre forti caratterizzazioni espressive, ispirate all’arte jaqueriana, e un acceso cromatismo, memore dello splendore dei dipinti fiamminghi, che il pittore poté ammirare nelle chiese di Chieri, traendone forse ispirazione anche per l’evidenza ottica con cui sono resi i particolari”.
Questo maestro dipinse la volta del presbiterio. Nella vela rivolta a nord egli racconta il processo e il supplizio di San Sebastiano; di fronte a Diocleziano il Santo si presenta in piedi e in nobile atteggiamento, con un ricco abito quattrocentesco di verde stoffa damascata, mentre nella scena del martirio è legato al palo e senza abiti.
Nella vela ad est è raffigurata una scena per molto tempo ritenuta essere l’Apoteosi di San Sebastiano ma che, recentemente, è stata interpretata come l’Incoronazione della Vergine.
A dire il vero stupisce il volto raffigurato, non delicato e dolce come da sempre è stato dipinto quello della Madonna, ma con forti tratti indubbiamente maschili e con la fronte stempiata!
Anche l’atteggiamento sembra più quello di un fiero cavaliere medievale che s’inginocchia per ricevere l’investitura da parte del sovrano piuttosto che quello umile e timoroso della Vergine sottomessa alla volontà del Signore.
Però si deve dar credito all’autorevolezza di Claudio Bertolotto che si è espresso così: “..l’intenso volto di Maria, che visto da vicino, durante il recente restauro, è parso assai più femminile e palpitante, nei suoi delicati chiaroscuri, di quanto potesse sembrare visto dal basso o in fotografia”.
Qualunque sia la lettura che si voglia dare dell’affresco, questo è forse il dipinto meno riuscito, mentre quello della vela rivolta a sud è il più bello e rappresenta due scene delle tentazioni di S. Antonio abate, che il Capello descrive in questo modo: “…appare come un vecchierello canuto e spaurito. Da una parte il diavolo, travestito da donna, alza la lunga gonna e scopre una gamba fino al ginocchio con mossa civettuola ed invitante. Sul capo della mala femmina due piccole corna, spiegano l’essenza del suo essere, cioè il demonio, dall’altra parte, S. Antonio è attorniato da orrende figure demoniache armate di randelli, in atteggiamento minaccioso”.
In effetti i quattro diavoli, più che minacciarlo, lo stanno proprio prendendo a bastonate!
Relativamente a questa vela si può fare anche un racconto sulla storia del costume, descrivendo l’abito con cui è raffigurata la donna della tentazione.
Carola Benedetto riporta quanto rilevato dalla professoressa Marina Perata: “La donna indossa un abito borgognone con la tipica verticalità gotica e scarpe à la poulaine. Straordinaria la raffinatezza fiamminga con cui è descritta la pelliccia che le orla l’abito. La fronte molto alta è tipica della moda nordica dell’epoca. In testa la donna ha un’acconciatura bipartita su cui si inseriscono due corna, simbolo del diavolo.
Nell’affresco della vela rivolta a ponente sono raffigurati i quattro evangelisti ed è curioso intravvedere sotto la sedia di uno di loro un gattino bianco che corre dietro a un topo!
San Sebastiano e Sant’Antonio sono fra i santi venerati come guaritori, motivo per il quale sono spesso associati. Il supplizio subito dal primo, trafitto dalle frecce, è all’origine della devozione popolare che lo considerava un baluardo alla peste; il secondo veniva invocato contro l’herpes zoster, malattia che è ancora oggi chiamata fuoco di Sant’Antonio.
Un altro seguace di Jaquerio lavorò nella decorazione dell’arco santo, ove sono raffigurati San Michele Arcangelo, ritratto in abito da guerriero con una rossa sopravveste che copre la corazza, e S. Bernardo da Aosta.
Sulla datazione del suo intervento Claudio Bertolotto asserisce che: “Il maestro del sottarco intervenne probabilmente subito dopo la conclusione della decorazione delle vele da parte di Guglielmetto Fantini, realizzata fra il quarto e quinto decennio del Quattrocento”.
I due santi sono correlati al pellegrinaggio e dalla loro presenza negli affreschi si possono trarre considerazioni sul legame della chiesa con i pellegrini.
La via Francigena partiva da Canterbury in Inghilterra diretta verso Roma e la Terra Santa, lungo la direttrice che unisce le tre famose chiese dedicate all’arcangelo: l’abbazia di Mont Saint Michel in Francia, la Sacra di San Michele e il santuario di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo in Puglia.
Le Alpi venivano valicate al passo del Moncenisio o, in alternativa, a quello del Gran San Bernardo, dove i pellegrini potevano trovare rifugio al monastero fondato dal santo, arcidiacono della cattedrale di Aosta nell’XI secolo.
La strada che collegava Chieri a Testona era uno dei percorsi preferiti dai pellegrini e passava per Covacium, a poche centinaia di metri da San Sebastiano, che, sicuramente, essi non mancavano di visitare, quando, lasciata Chieri dove era per loro predisposto un luogo attrezzato con letti, si rimettevano in viaggio, verso Santiago de Compostela, il santuario eretto intorno alla tomba di San Giacomo, il primo apostolo a subire il martirio dopo aver evangelizzato la Spagna.
In San Sebastiano San Giacomo è raffigurato in diversi affreschi: su un pilastro centrale, il Santo, riconoscibile per il bastone e il cappuccio da pellegrino, venne dipinto dopo il 1450 da un “Maestro post-jacqueriano” ancora non individuato.
Come San Sebastiano e San Giacomo, anche S. Antonio abate è raffigurato più volte: lo si trova nella prima semicolonna della navata sinistra dove, sopra la testa impreziosita dalla lunga barba bianca, è raffigurato lo stemma dei Vaudano, una di quelle famiglie storiche di Pecetto che migrarono da Covacium al ricetto pecettese.
I campi dello scudo gentilizio sono di tre colori: azzurro, argento e oro e sopra campeggia una piccola pianta di “vaud“(guado), pianta tintoria molto in uso nel medioevo da cui si estraeva il blu, e da cui sarebbe derivato il nome della famiglia. Il guado era coltivato ancora recentemente nei campi di Pecetto, in particolare nella zona che scende da Rosero in Valle Comorio, verso Strada del Turco, e veniva utilizzato nella coloritura dei primi jeans.
Non ci si deve stupire se si trovano sulle pareti della chiesa soggetti più volte ripetuti, dal momento che i temi da rappresentare erano liberamente scelti dalle famiglie committenti, né ci si deve stupire se predominano i santi guaritori e i pellegrini: in un’epoca in cui le malattie mietevano molte giovani vittime, è naturale che ci si rivolgesse ai soccorritori per la salute del corpo, così come il pellegrinaggio poteva contribuire alla salute dell’anima.
Intorno al 1470 lavorò alle pareti di San Sebastiano il “Maestro della cappella dei santi Stefano e Lorenzo”, artista non identificato il quale, secondo la disamina di Claudio Bertolotto: “…mostra una cultura ancora medievale, con forti accentuazioni espressive che rivelano la sua formazione sulla tradizione jaqueriana”.
Sulla parete di fondo della navata di sinistra il pittore racconta il miracolo compiuto da San Lorenzo, rappresentato nell’atto di aprire con le dita le palpebre di un bambino inginocchiato davanti a lui per ridargli la vista. E’ probabile che questa scena sia stata commissionata per una grazia ricevuta dacché il volto del fanciullo pare un vero ritratto.
Dalle modeste vesti indossate il bambino doveva essere di una modesta famiglia.
Bellissimo e ricco è invece l’abito quattrocentesco, a vita alta, con piccoli disegni neri, indossato da Santa Barbara, dipinta dietro S. Lorenzo con in mano la torre in cui venne reclusa dal padre. “Figura di soave castellana trecentesca” la descrive il Capello.
Allo stesso Maestro è attribuito l’affresco della Madonna sulla parete nella terza campata della navata di sinistra, nella lunetta in alto, immersa in un verde paesaggio fiammingo.
Su questa scena è particolare e curioso il commento del Capello: “Una madonnina, seduta su di un trono che si suppone solamente, dal viso paffutello e dolce, porge con gesto casto e naturale, la sua turgida mammella al Divin pargolo, che guarda, come incuriosito, verso i visitatori”.
Si possono immaginare le mamme pecettesi che si inginocchiavano ai piedi dell’affresco a pregare per la salute dei loro piccoli.
Sulla parete di fondo della chiesa, nel presbiterio, si ammira l’imponente Crocefissione, dipinta negli anni 1450-75, firmata, sotto il Cristo crocifisso, “Antonius de Manzaniis”, pittore ancora avvolto nel mistero, tanto è vero che si potrebbe pensare che la scritta, in gotico, si riferisca al committente. Claudio Bertolotto annota che “è documentata nel Medioevo una famiglia dei Manzanii, signori di Manzano, presso Cherasco” e dell’artista così dice: “Il pittore, partecipe di una cultura gotico-internazionale di matrice lombarda, rivela contatti con l’arte dei Paesi tedeschi nell’esasperata espressività di talune immagini, che sono state accostate a opere di artisti tedeschi o svizzeri, quali Hans Multscher o Konrad Witz”.
Lo stesso artista dovrebbe essere anche l’autore delle scene della Passione: Giuda che prende i trenta denari, l’Orazione nell’orto, l’Ultima cena, la Lavanda dei piedi.
Al di là della forte drammaticità dell’impianto scenico, l’affresco ci regala un’ampia rassegna di costumi del ‘400, come rilevato da Carola Benedetto: “I personaggi sotto la croce indossano abiti e copricapi quattrocenteschi. Il cappello rosso e squadrato dell’uomo al di sotto delle briglie del cavallo di sinistra rimanda ai copricapi rossi nell’Istituzione dell’Eucarestia del fiammingo Giusto di Gand, a quello indossato dal Francesco Sforza del lombardo Bonifacio Bembo e a quello del Federico da Montefeltro di Piero della Francesca”.
L’affresco, nel quale potrebbero anche essere state ritratte persone importanti di Pecetto o Chieri, evidenzia elementi che caratterizzano il periodo vissuto dagli abitanti del territorio all’epoca dei lavori eseguiti sulle pareti di San Sebastiano.
E’ evidente che era una contingenza particolarmente favorevole e fortunata: i mercanti di Chieri producevano tessuti eleganti e preziosi che portavano nei paesi tedeschi e fiamminghi e ritornavano con abiti colà confezionati, pronti per essere rivenduti alle famiglie più abbienti.
Nei loro viaggi venivano a contatto anche con l’arte di quei paesi e, dal momento che le loro finanze lo potevano permettere, commissionavano opere con tali caratteristiche ad artisti anch’essi influenzati dall’arte nordica e che non avevano quindi difficoltà nel riprodurle.
L’affresco dipinto sulla parete al fondo della navata laterale di destra è opera di un modesto pittore ancora senza un’identità, di stile tardo medievale e con rimandi all’arte lombarda.
Oltre a Santa Caterina da Alessandria d’Egitto, con la ruota dentata della sua tortura, sono dipinti San Bernardino da Siena, con il monogramma (IHS) e San Francesco, il santo di Assisi che venne canonizzato nel 1450. L’affresco è quindi successivo a tale data.
La rappresentazione dei due frati è così interpretata da Carola Benedetto: “La presenza dei due Santi francescani è un chiaro monito alla povertà, ma assume un peso del tutto particolare nel territorio del chierese, le cui famiglie più ricche erano per lo più mercanti e potenti prestatori di denaro. Non si dimentichi che proprio San Bernardino fu un instancabile predicatore contro l’usura.
Attorniata da questi santi è raffigurata una Madonna che allatta il Bambino, a dir la verità, raffigurato assai cresciutello. Ai piedi di questo affresco, una iscrizione funebre: Ioannes Ant. Tabasso, altra antica famiglia di Pecetto.
Nell’ultimo quarto del Quattrocento un pittore ancora non identificato affrescò molte scene che sono ritenute fra le più importanti. L’artista è conosciuto sotto il nome di “Maestro degli Apostoli di Revigliasco”, così convenzionalmente chiamato perché si individua in lui, “per la dolcezza dei lineamenti e dell’espressione”, come evidenziato dal Bertolotto, lo stesso pittore degli Apostoli della predella del trittico della parrocchiale della vicina Revigliasco.
A lui è attribuito l’affresco con S. Dario vescovo, S. Michele Arcangelo, S. Giacomo e S. Lucia. Sul ritratto di S. Giacomo Carola Benedetto rimarca: “Sul copricapo del Santo, inoltre, è appuntata la conchiglia che i pellegrini diretti a Santiago raccoglievano sulle sponde del mare di Finisterre, a indicare che il pellegrinaggio era stato compiuto per davvero”.
Il “Maestro degli Apostoli di Revigliasco” è anche autore dell’affresco delle Sante Vergini che decora la seconda parete della navata di sinistra, nel quale si può ritrovare una devozione molto sentita a livello locale, come testimoniato dal Cuniberti – che ripropone il Marocco – e raccontato da Carola Benedetto: “Il culto di queste Sante – chiamate “le cinque vergini” – oggi è poco diffuso, ma trova corrispondenza proprio nella confinante Revigliasco. Secondo quanto riportato dal canonico Cuniberti, negli statuti di Revigliasco del 1462 si ordina infatti di celebrare il 19 maggio le feste di “Santa Prudenziana con altre quattro Vergini, sotto pena di soldi cinque dei contravventori”!!
A fianco di un barbuto Santo cavaliere sono ritratte, individuate dalle scritte che riportano i loro nomi e le date delle loro feste, Prisca, Petronilla, Scolastica, Prudenziana e Brigida. Mentre Santa Scolastica, sorella di San Benedetto, è rappresentata con il nero abito monacale, le altre indossano eleganti abiti dell’epoca; in particolare Santa Brigida è vestita da nobile ed è raffigurata con piuma, calamaio ed un libro.
Rimasta vedova dopo un viaggio a Santiago di Compostela, fondò l’ordine del Santo Salvatore e venne invocata da pellegrini e viaggiatori.
Anche il Capello ricorda come le Sante fossero particolarmente venerate nel Chierese e, sul personaggio che le accompagna, scrive una curiosa annotazione: “E’ strano, ed anche buffo, che il personaggio barbuto, forse un feudatario di Pecetto, sia stato scambiato per una S.ta Barbara, sia dal Marocco che dal Buscaglione, autore di una monografia sulla chiesa di S. Sebastiano”.
Uscendo dalla chiesa, sulla parte sinistra, si trova un altro affresco di questo pittore, che raffigura Gesù mostrarsi agli apostoli dopo la risurrezione.
La vista si concentra sull’indice di S. Tommaso che sfiora con delicatezza la ferita del costato.
Sulla controfacciata destra della chiesa, quasi a dare il benvenuto al visitatore appena entrato, è rappresentato il primo momento di vita terrena di Gesù: la Natività.
E’ certamente il dipinto più bello di San Sebastiano e venne dipinto da Jacopino Longo, allievo di Giovanni Martino Spanzotti uno dei principali interpreti del rinnovamento in senso rinascimentale in Piemonte.
L’affresco è la prima opera datata dell’artista, 1508, che si ispirò alla pittura di Defendente Ferrari, pittore molto attivo nel Piemonte occidentale nel primo ‘500, come precisato da Claudio Bertolotto: “Nel nostro affresco il Bambino, circondato da irrequieti angioletti, è adagiato su un lembo del manto della Vergine, con la particolarità di esservi avvolto come in una coperta e addormentato, come nell’Adorazione notturna di Defendente Ferrari (Fogg Museum di Cambridge, Massachusetts), nella quale è stato riconosciuto il modello ispiratore di Jacopino. Ammirevole è anche la nitida scansione prospettica dell’edificio, che fa da sfondo alla toccante scena sacra, sottolineata dalla fredda luce invernale che filtra attraverso gli squarci del precario riparo”.
Sulle figure dei genitori del Bambino il Capello rimarca: “E’ molto vecchio, il buon S. Giuseppe, e la sua calvizie, la sua barba bianca contrastano col viso di bimba della Beata Vergine”!
Il Marocco invece così descrisse la scena agreste: “in alto e in lontananza si vede un gruppo di angeli annunziare a semplici pastori, chiusi in lanose pelli, e vigilanti alla custodia del loro gregge, la venuta del Redentore”.
Il loro abbigliamento ricorda da vicino il modesto abito del bimbo miracolato da S. Lorenzo.
In questo affresco c’è un preciso richiamo alle famiglie che contribuirono alle origini di Pecetto, come racconta Carola Benedetto: “In basso infine è riportato il nome del committente: “Bernardinus de Canonicus”. Si tratta di una famiglia pecettese molto antica, già presente fra le settantacinque che manifestarono l’intenzione di lasciare Covacium per spostarsi nel ricetto. Se è vero, come ricorda Michele Bosso, che “i Canonico, così come i Bosso, erano stati scomunicati da Gregorio IX in seguito ad alcune scorrerie condotte ai danni della chiesa di Testona”, allora questa commissione potrebbe essere stata volta proprio a mitigare il vecchio castigo”.
E’ ancora misterioso il nome del pittore che dipinse, fra il 1520 e il 1530, una leggenda correlata ad un pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Per le sue somiglianze con l’autore della Natività è stato convenzionalmente e curiosamente chiamato “pseudo Jacopino Longo”.
L’affresco, sulla volta della terza campata della navicella di sinistra, racconta il miracolo di Santo Domingo de la Calzada, paese sulla via per Compostela, dove un ragazzo con la sua famiglia si fermò a pernottare. La figlia del locandiere si invaghì di lui ma venne respinta e, per vendicarsi, gli nascose nella sacca una preziosa coppa d’argento di cui denunciò poi il furto, per il quale il giovane venne impiccato.
Le insistenti suppliche dei genitori non furono ascoltate dalle autorità locali ma le loro preghiere giunsero alle orecchie di S. Domenico, l’eremita che aveva fatto costruire il ponte sul fiume Oja, riparare la strada dei pellegrini e costruire la cattedrale che ne conserva i resti.
Grazie al suo intervento il giovane rimase in vita, pur con la corda al collo, il capo sollevato dalla mano generosa del Santo protettore della città. Così lo trovarono, al ritorno da Santiago, i genitori che avevano comunque voluto continuare il loro pellegrinaggio.
Nel racconto del miracolo il pittore ha forse rappresentato San Giacomo e non San Domenico mentre, come riferisce il Marocco, la cronaca del padre Gregorio Rosignoli nella sua opera “Meraviglie di Dio ne’ suoi Santi”, precisa che il ragazzo, ancora appeso, si rivolge alla madre con queste parole: “La pietà della Regina del cielo e il patrocinio di S. Domenico mi hanno custodito della morte e conservato in continuo stato di vita”.
Comunque, S. Giacomo o S. Domenico che fosse, poco importa. La vicenda si conclude felicemente come racconta Carola Benedetto: “A quel punto corrono dal giudice per fargli correggere la sentenza e liberare definitivamente il ragazzo. Il giudice si trova seduto a tavola, pronto ad addentare due polli arrosto. Dopo aver ascoltato il racconto dei genitori, egli ribatte che il loro ragazzo è morto come lo sono i polli che sta per mangiare. Pronunciate queste parole i due volatili saltano via dal piatto e iniziano a cantare”.
Il miracolo è compiuto e tutti vanno a liberare il giovane. Non si conosce la sorte della ragazza che provocò tutto questo pandemonio; il Marocco dice solo che: “Della calunniatrice poi lascia lo storico al lettore l’immaginarsi in che confusione e pena ella restasse”!
Da quel giorno all’interno della cattedrale di Santo Domingo de la Calzada, dentro una preziosa e decoratissima dorata gabbia gotica (gallinero), sono ospitati due galli bianchi vivi che spesso cantano tra la curiosità dei pellegrini che qui sostano in preghiera, gli occhi attenti rivolti alla gabbia e le orecchie tese.
Allo “pseudo Jacopino” sono anche attribuiti San Cristoforo che aiutava i viandanti ad attraversare un fiume e che portò il Bambino sulle sue spalle e S. Rocco, rappresentato su un pilastro di fronte, altro santo pellegrino e guaritore che curò i malati di peste e, contagiato pure lui, si rifugiò in un bosco per non trasmettere ad altri il morbo. Sopra San Rocco è rappresentato lo stemma della famiglia Bosio, antica famiglia di Pecetto, consistente in un campo verde con un bue d’oro, secondo l’identificazione del Marocco.
In un altro suo affresco, sulla parete di sinistra della navata principale, nell’arco della campata, è raffigurata l’Assunta.
L’affresco è protagonista di una storia avvenuta dopo l’ultima guerra, quando la Chiesa indagava sulla devozione che il popolo nutriva nei confronti dell’Assunta per proclamarne il dogma, evento che poi avvenne nel 1950. La vicenda è stata raccontata da Michele Bosso, lo storico pecettese che tanto ha studiato e scritto sul paese: “Fu così che a Pecetto arrivò monsignor Vincenzo Barale. Gli mettemmo la scala, che tenni io, ed egli salì per fotografare la nostra Assunta e mandarla alla Santa Sede, dove probabilmente è conservata tuttora in qualche archivio”.
Un’altra splendida Madonna fu affrescata nel sottarco della seconda campata di destra, raffigurata col Bambino e con una rosa in mano, anch’essa oggetto di devozione da parte delle mamme pecettesi, come racconta Carola Benedetto: “..le giovani pecettesi chiedevano la grazia per la crosta lattea dei loro neonati. “Un tempo si accendeva la lampada che le cala davanti – ricorda il pecettese Michele Bosso – e si appendevano le cuffiette al pilastro come ex voto”.
Nella chiesa ci sono anche dei quadri, pure loro con una particolare storia da raccontare.
Sulla parete laterale di sinistra del presbiterio vi è un’ancona lignea con una tela che raffigura la Madonna con il Bambino attorniata da un gruppo di santi, fra cui San Fabiano, il co-titolare della chiesa. Il dipinto venne eseguito da un monaco camaldolese dell’Eremo di Pecetto, Gregorio Cartario da Orvieto nel 1631. A seguito della soppressione degli ordini religiosi sotto Napoleone, l’ancona venne trasferita a San Sebastiano e collocata sull’altare in muratura (come riferisce il Marocco) al centro e sul fondo del presbiterio, nascondendo l’affresco della Crocifissione. Venne spostata agli inizi del ‘900.
Nella navata di destra, prima campata, si trova una Madonna del Rosario, dipinto che risale al 1608, eseguito da Cristoforo Aliberti, artista che lavorò per il duca Carlo Emanuele I.
Sempre a destra, nella seconda campata, un altro quadro, di un eccellente pittore di fine Seicento, raffigura le Anime del Purgatorio, probabile rimando alla funzione cimiteriale della chiesa.
Una volta usciti da San Sebastiano, sotto l’onda emotiva generata dall’atmosfera mistica e fantastica degli affreschi, non si può non gettare uno sguardo verso il cimitero alle sue spalle, quel cimitero dove ora riposa Barbara Allason che con tanto garbo l’aveva descritto: “Ma più che dalla chiesa io sono sempre attratta dal cimitero che gli sorge vicino. Vi dormono i miei morti più cari. Ma non è solo per quello. Così circondato dalle colline, sotto il sorriso di quelle cascine annidate nei boschi, con quel campanile del Pino lì in faccia, per poco che il sole lo visiti è così allegro quel cimitero, è così giocondo nella luce festante dei colli, che io non so pensarvi la morte altro che serena e fraterna, e come un dolce riposo, dopo la vita faticosa e difficile”.